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mar 18 giu

ADRIAEN VAN UTRECHT (1599-1652) - Il gallo e la perla, 1649. Olio su tela. Firmato e datato in alto a sinistra "Adriaan Van utrecht / fecit Anno 1649". Adriaen van Utrecht è uno dei più noti pittori di selvaggina e animali del XVII secolo. Uno dei più talentuosi epigoni di Frans Snijders (1579-1657), permise al genere di fiorire nella regione di Anversa e ben oltre. Dipinse nature morte di frutta, fiori e vanitas, ghirlande, nature morte di mercato e da esposizione e scene di uccelli prevalentemente domestici nel contesto di una fattoria. Questo "sottogenere" del pollame vivo nel neerhof sarà in seguito portato a un vero e proprio apice dal pittore dell'Olanda settentrionale Melchior d'Hondecoeter (1636-1695 circa). Ciò che questo maestro olandese non prende dal suo predecessore, tuttavia, è l'elemento narrativo che Van Utrecht incorpora immancabilmente nelle sue scene di uccelli. Al centro della tela vediamo un grande gallo bianco, probabilmente un Braekel fiammingo, circondato da galline e pulcini. Accanto al suo artiglio si trova un ciondolo d'oro con una grande pietra preziosa incastonata e rifinita alla base con una perla. Una gallina ispeziona attentamente il gioiello. Adriaen van Utrecht allude qui a un'antica favola del "Gallo e la perla" attribuita al poeta greco Esopo (620 a.C. circa - 560 a.C. circa), considerato il fondatore della favola. Il racconto recita come segue: "Una volta un gallo stava camminando su e giù per il cortile tra le galline, quando improvvisamente vide qualcosa che luccicava tra la paglia. "Ho! ho!", disse, "questo è per me", e lo sradicò rapidamente da sotto la paglia. Che cos'era, una perla persa per caso nel giardino? "Puoi essere un tesoro", disse Mastro Gallo, "per coloro che ti apprezzano, ma per me preferirei avere un solo chicco d'orzo che un becco pieno di perle"" (traduzione propria dall'inglese, basata su Joseph Jacobs, "The Fables of Aesop", Houston, 1992). La morale che se ne può trarre è che la saggezza viene prima della ricchezza. Solo chi ha la conoscenza per apprezzare qualcosa di prezioso ne trae beneficio. Queste favole, accompagnate da illustrazioni emblematiche, ebbero una grande popolarità nel XVII secolo. Molti ripresero le favole di Esopo, tra cui Marcus Geeraerts (1520 ca. - 1590 ca.) ed Eduard de Dene (1505-1576) con il loro "De warachtighe fabulen der dieren" illustrato, pubblicato nel 1567. Le stesse illustrazioni furono utilizzate anche da Joost van Vondel (1587-1679) per il suo "Vorsteliicke warande der dieren" del 1617. È probabile che Adriaen van Utrecht si sia ispirato a una di queste due pubblicazioni per arricchire questa scena di fattoria con una stratificazione intellettuale. Uno strato di vernice eccezionalmente spesso, invece, è qualcosa che l'artista non aveva previsto. A questo si deve il carattere piuttosto scuro del dipinto, che senza dubbio rivelerà il suo splendore come una perla nascosta dopo la pulitura. 85 x 112 cm Stato: A nostro avviso, il dipinto è in condizioni ragionevoli, anche se lo strato di vernice molto spesso e ingiallito dovrebbe essere rimosso. Questo strato di vernice notevolmente spesso presenta anche molti craquelé. Non è chiaro se questo craquelé continui nello strato di vernice.

Stima 20 000 - 25 000 EUR

mar 18 giu

FRANCESCO LORENZI - (Mazzurega Fumane, 1723 - Verona, 1787) Bozzetto per la pala raffigurante l'estasi di san Francesco Olio su carta applicata su tavola, cm 46,5X24,7 Provenienza: Monaco di Baviera, W. Muller (1938, come Giovanni Antonio Guardi) Collezione privata Bibliografia: A. Tomezzoli, Al di là dei confini, a nord di Verona. Dipinti e pittori veronesi nel Trentino del Settecento, in I Colori della Serenissima. Pittura veneta del Settecento in Trentino, catalogo della mostra a cura di A. Tomezzoli e D. Ton, Trento 2022, pp. 55-83; pp. 67-69, fig. 16 (su segnalazione di Elvio Mich) È la metà del Settimo decennio quando Lorenzi realizza la pala raffigurante San Francesco in Estasi destinata alla chiesa di San Martino di Pilcante (fig. 1), avendo a modello la simile composizione concepita da Giambattista Piazzetta nel 1729 per la chiesa vicentina di Santa Maria in Araceli, oggi custodita nella Pinacoteca Civica. Quest'opera, considerata emblematica e fra le più ispirate della pittura veneziana (Cfr. A. Mariuz, in Pinacoteca Civica di Vicenza. Dipinti del XVII e XVIII Secolo, a cura di M. E. Avagnina, M. Binotto, G. C. F. Villa, Milano 2004, pp. 393-395, n. 363), dimostra la sua vitalità illustrativa in virtù del pittore veronese che ne ravviva la memoria in chiave tiepolesca. Con Lorenzi si smorzano gli eccessi drammatici e i contrasti dell'ombra, ma se l'opera finita può risultare algida e porcellanata, ben altro tenore ha il bozzetto qui presentato, in cui la luce smuove il colore e l'enfasi miracolosa. Allievo e collaboratore di Giambattista Tiepolo dal 1744 fino alla metà del sesto decennio, il pittore nel corso della sua carriera esprime un registro linguistico influenzato dal maestro. Ma se nelle opere precoci ne è debitore dal punto di vista inventivo, durante la maturità lo vediamo ampliare la sua attenzione rielaborando altri modelli e suggestioni con l'intento di riassumere una tradizione piegandola in una chiave meditatamente neoclassica. Nondimeno, quando concepisce pittoricamente la 'prima idea', esprime al meglio una sprezzatura squisitamente rocaille e una vivace interpretazione della luminosità dell'arte lagunare. Bibliografia di riferimento: A. Tomezzoli, Francesco Lorenzi (1723 ; 1787), catalogo dell'opera pittorica, in Saggi e Memorie di Storia dell'arte, 24, 2000, p. 247, n. 647/D A. Tomezzoli, Precisazioni sul Catalogo di Francesco Lorenzi, in Francesco Lorenzi un allievo di Tiepolo tra Vicenza, Verona e Casale Monferrato, Atti della giornata di studi a cura di I. Chignola, E. M. Guzzo, A. Tomezzoli, Verona 2002 E. M. Guzzo, Francesco Lorenzi (1723 ; 1787), dipinti e incisioni, catalogo della mostra, Verona 2002, ad vocem

Stima 3 000 - 5 000 EUR

mar 18 giu

PITTORE BOLOGNESE DEL XVI-XVII SECOLO - Ritratto di Petrus Gonsalvus (Tenerife, 1537 - Capodimonte, 1618) Olio su rame, cm 20,5X16 Provenienza: Collezione privata Il dipinto è uno dei rari ritratti di Pedro Gonsalvus che, originario di Tenerife, all'età di dieci anni fu fatto prigioniero dagli spagnoli e mentre veniva condotto da Carlo V, fu catturato da corsari francesi e inviato alla corte di Francia quale stravagante regalo per il re Enrico II e la moglie Caterina de Medici. L'uomo, di origini nobiliari in quanto erede di una famiglia reale Guaci, era affetto da ipertricosi e il naturalista italiano Ulisse Aldrovandi lo definì 'l'uomo dei boschi', alla corte francese era chiamato 'il gentiluomo selvaggio di Tenerife'. Detto ciò, Gonsalvus ricevette una educazione cortese, tanto da potersi permettere l'appellativo di 'don', fermo restando che la sua prerogativa era di impersonare una curiosità naturalistica. Nondimeno, il giovane divenne una delle personalità più colte dell'entourage di Enrico II e all'età di trentasei anni, per capriccio della regina, gli fu data in moglie la più bella delle sue dame di compagnia, Catherine, con la quale ebbe sei figli e diede origine alla narrazione della 'bella e la bestia'. Tra il 1580 e il 1590 Petrus Gonsalvus si recò con la famiglia in Italia, dove soggiornò alla corte di Margherita di Parma. Si stabilì in seguito a Capodimonte, nella Rocca Farnese sul lago di Bolsena in provincia di Viterbo, dove morì nel 1618. Tornando al dipinto, come sappiamo sono pochi quelli raffiguranti Pedro Gonsalvus e quelli noti sono conservati nel castello di Ambras presso Innsbruck nella cosiddetta 'Camera dell'Arte e delle curiosità'. Celebre è invece il ritratto della figlia Antonietta realizzato da Lavinia Fontana in due redazioni anch'essa affetta da ipertricosi. Bibliografia di riferimento: R. Zapperi, El salvaje gentilhombre de Tenerife: la singular historia de Pedro Gonzáles y su familia, Zeck 2006, ad vocem

Stima 1 000 - 2 000 EUR

mar 18 giu

PITTORE ATTIVO A BOLOGNA NEL XVI-XVII SECOLO - Giuditta e Oloferne Olio su tavola, cm 86,5X69,5 Provenienza: Roma, collezione privata La tavola mostra caratteri emiliani di fine Cinquecento, affinità con le creazioni di Lavinia Fontana (Bologna, 1552 ; Roma, 1614), ma anche una singolare suggestione nordica. Difatti, il tenore metallico delle stesure, l'energia espressiva e la pervicace attenzione nel descrivere i gioielli e i ricami delle vesti, suggeriscono il confronto con le creazioni di Denys Calvaert (Anversa, 1540 circa ; Bologna, 1619). Un valido parallelo ci viene offerto dalla Giuditta della Pinacoteca Stuard di Parma, nella quale osserviamo un volto somigliante con il medesimo sguardo, la forma indispettita delle labbra e un affine disegno delle mani e dei gesti (fig. 1). Altrettanto utile è il confronto con la Santa Cecilia della Galleria Nazionale di Parma, in cui sovvengono analoghe soluzioni sartoriali con l'uso di gioielli a guisa di spilla. Pertanto, l'opera a dispetto di una necessaria messa a punto della superficie, rivela un'alta qualità d'esecuzione, a sua volta avvalorata dalla preziosità dei pigmenti e della conduzione pittorica, contraddistinta da sapienti passaggi a velatura e cromie cangianti secondo la miglior arte fiamminga di gusto italianizzante. Come sappiamo, Calvaert lasciò Anversa in giovane età per recarsi in Italia e, raggiunta Bologna, fu allievo di Prospero Fontana e Lorenzo Sabatini, per poi soggiornare a Roma dal 1570 al 1572 per studiare le opere degli artisti rinascimentali. Tornato a Bologna aprì con successo la propria bottega creando opere in cui il possente colorismo dei manieristi fiamminghi si coniuga con la migliore tradizione italiana.

Stima 2 000 - 3 000 EUR

mar 18 giu

POLIDORO DA LANCIANO - (Lanciano, 1515 - Venezia, 1565) Madonna con il Bambino e San Giovannino Olio su tavola, cm 53,5X48,5 Provenienza: Firenze, collezione privata Non si hanno notizie sull'educazione artistica del giovane Polidoro de Renzi, la sola testimonianza certa è del 1536, quando il suo nome viene registrato nella Fraglia dei Pittori Veneziani. Nella città lagunare certamente frequenta la bottega di Tiziano Vecellio, come attestano le sue Sacre Conversazioni, ma non è storicamente confermata la sua presenza nell'atelier del cadorino, laddove la sua arte appare altresì influenzata da Paris Bordon e Bonifacio de Pitati. Negli anni Quaranta licenzia la sua unica opera documentata, la pala raffigurante La Discesa dello Spirito Santo, destinata all'altare maggiore della chiesa omonima alle Zattere (Venezia, Gallerie dell'Accademia), ma in questo decennio si collocano altre opere di grande formato, dove si evincono chiare suggestioni tintorettesche. Nel 1552 realizza il perduto gonfalone per la Scuola Grande di San Teodoro, nel 1559 riceve la commissione per le portelle d'organo della Chiesa di San Giovanni in Bragora, mentre il suo stile manifesta chiare suggestioni del classicismo veronesiano, da cui trae moduli iconografici e una rinnovata modernità cromatica. La tavola in esame si può collocare al periodo giovanile, quando preponderanti sono i condizionamenti del Vecellio e la produzione è indirizzata a creare quadri di devozione e Sacre Conversazioni dal pieno carattere narrativo, seguendo formule iconografiche collaudate di gran successo. Bibliografia di riferimento: E. Martini, Pittura veneta e altra italiana dal XV al XIX Secolo, Rimini 1992, pp. 86-87, n. 32 V. Mancini, Polidoro da Lanciano, Lanciano 2001, ad vocem

Stima 2 000 - 3 000 EUR

mar 18 giu

CARLO ANTONIO PROCACCINI - (Bologna, 1571 - Milano, 1630) Ebbrezza di Noè Olio su tavola, cm 63X80 Provenienza: Vienna, Dorotheum, 10 novembre 2022, lotto 232 (come Carlo Antonio Procaccini) Formatosi nella bottega del padre Ercole con cui lavoravano anche i fratelli Camillo e Giulio Cesare, la presenza a Milano del pittore è attestata nel 1590 quale collaboratore di Camillo nel cantiere della Villa di Visconti Borromeo a Lainate (Cfr. A. Morandotti, Milano profana nell'età dei Borromeo, Milano 2005). Se le prime opere di Camillo riflettono lo stile della bottega, come si evince osservando il 'quadrone' raffigurante la Morte di San Carlo Borromeo conservato nel duomo di Milano (Cfr. M. Rosci, I quadroni di San Carlo del Duomo di Milano, Milano 1965) e la Madonna del Rosario di Erve, che costituiscono le testimonianze di maggior rilievo della sua produzione pubblica, il pittore scelse ben presto di dedicarsi al genere della natura morta (cfr. A. Morandotti, Carlo Antonio Procaccini, in La natura morta in Italia, a cura di F. Porzio; F. Zeri, I, Milano 1989, p. 233; D. Dotti, Carlantonio Procaccini pittore di nature morte, in Paragone, LXII, 2011, 741, pp. 35-41) e al paesaggio, facendo riferimento agli esempi di Paul Brill e Jan Bruegel. Questa predilezione è altresì confermata dall'uso di realizzare le proprie opere su tavola, atte a evocare al meglio le delicatezze espressive e cromatiche dei fiamminghi. Questo aspetto si coglie molto bene nell'opera in esame, i cui brani paesistici, e in modo particolare la descrizione degli alberi, evidenziano la preziosità della sua arte, condotta con attenzione miniaturistica e una rarefatta evocazione del paesaggio, il cui fondale si stempera in una delicata tonalità azzurra. Ma in questo caso si deve evidenziare una matura e autonoma interpretazione dell'arte nordica in chiave prettamente italiana, che si distingue dalle opere in cui l'autore svolge il proprio lavoro replicando fedelmente i modelli, come avviene nel Paesaggio con Santa Margherita conservato al Museo Ala Ponzone di Cremona, che si rivela smaccatamente una copia da Jan Brueghel (Cfr. A. Lo Conte, Carlo Antonio and the bottega Procaccini, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, 2020, pp. 13-14, figg. 5-6). Ciò induce a ipotizzare una data d'esecuzione matura, intorno al secondo e terzo decennio, documentando gli esiti migliori e più autonomi dell'artista. Si ringrazia Alberto Crispo per l'attribuzione. Bibliografia di riferimento: R. Longhi, Un italiano sulla scia di Elsheimer, Carlo Antonio Procaccini, in Paragone, XVI, 1965, 185, p. 43 A. Morandotti, in Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo 1999, pp. 12-17, 235-244 A. Crispo, Carlo Antonio e l'eredità dei Procaccini, in Paragone, LIV, 2003, 639, pp. 42-50 A. Crispo, Qualche proposta per Camillo Antonio Procaccini, in Parma per l'arte, XVIII, 2012, 2, pp. 69-72

Stima 2 000 - 3 000 EUR

mar 18 giu

GASPARE DIZIANI - (Belluno, 1689 - Venezia, 1767) Mosè e il serpente di bronzo Olio su tela, cm 54,5X68,5 Provenienza: Milano, collezione privata Rinomato pittore e incisore, Gaspare Diziani fu dapprima allievo di Gregorio Lazzarini e poi del conterraneo Sebastiano Ricci. La sua iniziale notorietà si deve alla scenografia teatrale che lo condusse alla corte di Augusto III di Sassonia a Dresda nel 1717 e a Monaco di Baviera. Nel 1720 rientra a Venezia e gode di un felice momento pittorico. Si sposta in diverse città del Veneto, dipingendo opere di pregevole valenza artistica, soprattutto a Belluno e a Padova. Viaggerà anche a Roma, Bergamo e Trento, affrontando tutti i generi, dal paesaggio al ritratto storico, alla pittura religiosa. Nel 1766, è eletto alla presidenza dell'Accademia di Pittura di Venezia, ma non può concludere il mandato perché muore improvvisamente il 17 agosto 1767 in piazza San Marco. Il dipinto qui presentato, raffigurante Mosè e il serpente di bronzo con uno sfondo di paesaggio, ricorda per la robustezza di forme e tenore cromatico diverse simili composizioni del maestro. Secondo Filippo Pedrocco si tratta di un'opera databile agli inizi del quarto decennio e affine all'Entrata di Cristo a Gerusalemme eseguito nel 1733 per la Scuola Grande di San Teodoro (oggi custodita nella chiesa di San Pietro Martire a Murano), il cui bozzetto appartenente al Landesmuseum di Hannover è quanto mai prossimo al dipinto in esame (Cfr. M. Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, a cura di M. Lucco, A. Mariuz, G. Pavanello, F. Zava, Milano 1996, II, fig. 109). Possiamo altresì ricordare che la costruzione narrativa così concepita fu successivamente impiegata dall'autore nella tela appartenente alla Chiesa dei Santi Michele e Luigi di Montebelluna del 1755 (Fig. 1; Cfr. Zugni-Tauro, p. 67, tav. 215; Fototeca Cini: https://arte.cini.it/Opere/448851). L'opera è corredata da una scheda critica di Filippo Pedrocco. Bibliografia di riferimento: A. P. Zugni Tauro, Gaspare Diziani, Venezia 1971 E. Martini, La pittura del Settecento veneto, Maniago 1982, ad vocem E. Martini, Pittura Veneta ed altra italiana dal XV al XIX secolo, Rimini 1992, ad vocem R. Pallucchini, Gaspare Diziani, in La pittura nel Veneto. Il Settecento, Milano 1996, II, pp. 86-104

Stima 8 000 - 12 000 EUR

mar 18 giu

PIER DANDINI - (Firenze, 1646 - 1712) Venere e Adone Olio su tela, cm 172X211,5 Provenienza: Firenze, Pandolfini, 26 novembre 2019, lotto 12 (come Pier Dandini) Ricondotto al catalogo di Pier Dandini da Sandro Bellesi, la tela è un felicissimo esempio pittorico e compositivo dell'artista, che fu un sapiente interprete dello sviluppo stilistico del tardo barocco toscano e quanto mai attento alle influenze di Pietro da Cortona, attivo a Palazzo Pitti tra il 1637 e il 1647, e di Luca Giordano, che durante i primi anni Ottanta è impegnato a Palazzo Medici Riccardi. Influenze che il nostro apprese anche durante il soggiorno capitolino e a Venezia, dove soggiornò fino al 1670 circa, desideroso di proporre la sua visione d'artista universale, esibendo un dotto e consapevole eclettismo. Non sorprendono pertanto le precedenti attribuzioni alla scuola fiamminga e a Charles Dauphin, sintomatiche della sua eterogenea cultura. Infatti, Sandro Bellesi sottolinea che l'opera presenta solo in parte i caratteri tipici dell'artista, osservando evidenti influenze della pittura lagunare e in particolare a Pietro Negri, Pietro della Vecchia e Antonio Zanchi, indicativi altresì di una esecuzione al periodo giovanile, poco dopo il 1670, anno del suo rientro in Toscana dopo un lungo soggiorno lagunare. Probanti i confronti con la pala d'altare nel duomo di Siena raffigurante lo Sposalizio mistico di Santa Caterina da Siena e con la Santa Maria Maddalena de' Pazzi che riceve il velo della Purezza dalla Vergine e da Gesù Bambino custodito nella chiesa di San Bartolomeo a Prato. L’opera è corredata da una scheda critica di Sandro Bellesi. Bibliografia di riferimento: S. Bellesi, Pier Dandini e la sua scuola, Firenze 2014, ad vocem

Stima 8 000 - 12 000 EUR

mar 18 giu

GENNARO GRECO detto IL MASCACOTTA - (Napoli, 1663 - 1714) Capriccio Olio su tela, cm 52,5X102 Provenienza: New York, collezione Howard W. Blake New York, Christie's, 8 aprile 1988, lotto 178 (come attribuito a Gennaro Greco) Milano, collezione privata La luce meridiana che traspare tra le architetture in eleganti alternanze cromatiche grigio azzurro, la costruzione prospettica e la mimesis atmosferica, indicano la correttezza dell'attribuzione al pittore napoletano Gennaro Greco. Secondo le fonti storiche settecentesche l'artista studiò il trattato di prospettiva compilato da Padre Pozzo nel 1693 e il de' Dominici narra che 'impratichito da quelle ottime regole fece bellissimi quadri, tirando linee in vedute prospettiche con tanta intelligenza' (cfr. B. de' Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli 1742-44, III, pp. 553-554). Queste evidenti qualità pongono il Greco quale anello di congiunzione tra Viviano Codazzi e i capricci napoletani di Leonardo Coccorante (attivo a Napoli nella prima metà del XVIII secolo), inaugurando quel filone illustrativo dedicato ai paesaggi fantastici con capricci architettonici e figure risolte con pennellate veloci e a macchia, sulla falsariga di Domenico Gargiulo. Tornando alla tela qui esaminata, la qualità pittorica delle stesure suggerisce, a nostro parere, di ricondurne l'esecuzione all'artista. Bibliografia di riferimento: N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento dal Barocco al Rococò, Napoli 1988, I, figg. 422; 42 K. Murawska Muthesius, Il teatro napoletano delle rovine: i quadri della cerchia di Leonardo Coccolante e di Gennaro Greco nelle raccolte polacche, pp. 74-75 in Bulletin du Musée National de Varsovie, XXXIX, 1998 n 1-4, pp. 71-89 G. Sestieri, Il Capriccio Architettonico in Italia nel XVII e XVIII secolo, Roma 2015, vol. II, pp. 192-229

Stima 2 400 - 3 600 EUR

mar 18 giu

PITTORE LOMBARDO DEL XVII-XVIII SECOLO - Ragazza allo specchio Olio su tela, cm 51X60,5 Provenienza: Vienna, Dorotheum, 11 novembre 2021, lotto 325 (come pittore caravaggesco francese del XVII secolo) Già riferita a un caravaggesco francese, siamo persuasi che l'opera si debba ricondurre a un maestro di scuola lombarda e più precisamente ad Antonio Cifrondi (Clusone, 1656 ; Brescia, 1730). Secondo il Tassi (Cfr. F. M. Tassi, Vite de' pittori, scultori ed architetti bergamaschi, Bergamo 1793, pp. 4, 34-41, 66), l'artista apprese i primi insegnamenti dal pittore clusonese Cavalier del Negro, di cui nulla è dato sapere e successivamente si traferì a Bologna per frequentare la bottega di Marcantonio Franceschini, tornando in patria nel 1687. Tuttavia, osservandone la produzione, non si avvertono i caratteri del classicismo emiliano, ma una evidente adesione a quella 'pittura della realtà' in auge tra Bergamo e Brescia. Nel nostro caso si percepisce quella luminosità diffusa e al contempo modulata dal contrasto chiaroscurale tra la figura e lo sfondo tipica dell'autore e così anche le stesure che alternano passaggi a corpo e liquidità diafane. Si riconosce sempre al Cifrondi la particolarità espressiva, l'inventiva scenica, la tipologia del volto con le labbra vermiglie e infine la peculiarità dello sguardo. Aspetti che possiamo riscontrare nell'Autoritratto di collezione privata (Cfr. Proni-Ferrari 2023, pp. 17-23, tav. 1), nel Ritratto di Giovane contadina della Tosio Martinengo (Proni-Ferrari 2023, p. 64, fig. 4) e nel Ritratto d'uomo di profilo appartenente al Museo di Clusone. Bibliografia di riferimento: B. Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, Bergamo 1959, V, pp. 153-155 Antonio Cifrondi, 'pittor fantastico' (Clusone, 1656 ; Brescia, 1730), Catalogo della mostra a cura di E. de Pascale e L. Brignoli, Bergamo 2023, ad vocem Antonio Cifrondi a Villa Zanchi e a Ponte San Pietro, catalogo della mostra a cura di M. S. Proni e R. Ferrari, Verona 2023, ad vocem

Stima 2 000 - 3 000 EUR

mar 18 giu

PIER FRANCESCO CITTADINI - (Milano, 1616 - Bologna, 1681) Circe Olio su tela, cm 88,5X71 Allievo di Daniele Crespi a Milano, il Cittadini si trasferisce a Bologna agli inizi del quarto decennio, dove prosegue il suo apprendistato con Guido Reni sino al 1637. L'Oretti e l'abate Lanzi lo descrivono evidenziando la poliedrica capacità d'esprimersi nei diversi generi pittorici, realizzando con la medesima naturalezza, affascinanti ritratti, nature morte e delicati paesaggi, avvalendosi sapientemente dei modelli di origine fiamminga, impiegando moduli compositivi del classicismo romano e nella natura morta, adottando gli esempi lombardi di Evaristo Baschenis e Bartolomeo Bettera, riuscendo nondimeno a creare composizioni di notevole originalità. Nel 1645 l'artista visita Roma e fra il 1650 e il 1652 è impegnato insieme al fratello Carlo e Jean Boulanger a decorare la Sala di Bacco nel Palazzo Ducale di Sassuolo, dipingendo fiori e frutti che incorniciano i medaglioni dipinti dal pittore francese. Il medesimo motivo decorativo è altresì impiegato nelle 'Quattro Stagioni', oggi conservate nel museo estense e nella Pinacoteca comunale di Bologna. L'attività di pittore dedito alla natura morta e al paesaggio è accompagnata da una cospicua produzione ritrattistica, genere dove l'origine milanese emerge prepotentemente nel piglio realistico di tradizione lombarda, senza tralasciare l'eleganza e le sontuosità di immagine di tradizione romana, veneta e quella locale, rappresentata da Cesare e Benedetto Gennari. Nei ritratti colpisce oltremodo l'indagine psicologica degli effigiati, agevolata da una minuta capacità di osservazione, ma anche dalla resa luministica, che gli consente una eccelsa descrizione degli abiti. Il dipinto in esame testimonia tutte le qualità attribuite all'artista, che accentuano la carica vitale che emana la giovane donna raffigurata che, per le foglie d'erba di una pozione entro la bottiglia di vetro posta sul tavolo, la bacchetta e il libro su cui si scorgono misteriose formule, si riconosce nella figura di Circe. Lo stile e l'impostazione formale, invece, rivelano la chiara influenza di Guido Reni e Simone Cantarini, trovando numerose analogie con altre mezze figure grandi al naturale dipinte dall'artista nel corso del Quinto decennio e pubblicate da Massimo Pulini. L'opera è corredata da una scheda critica di Massimo Pulini. Bibliografia di riferimento: M. Pulini Pier Francesco Cittadini, Sant'Orsola in Quaderni del Barocco, Ariccia Museo di Palazzo Chigi, 20 dicembre 2008 M. Pulini in La Natura e la Grazia. Raccolte riservate di grandi antiquari, catalogo della mostra a cura di A. Giovanardi, Cesena 2012, pp. 70-71 M. Pulini, Le Nature vive di Pier Francesco Cittadini e una nuova identità per Carlo, in About Art online, 17 maggio 2020 M. Pulini, Pierfrancesco Cittadini paesaggista, in About Art online, 30 maggio 2020 M. Pulini, Pier Francesco Cittadini Il Fare grande e il sacro, in About Art online, luglio 2020

Stima 5 000 - 8 000 EUR

mar 18 giu

PITTORE LOMBARDO DEL XV-XVI SECOLO - Natività Olio su tavola, cm 57,5X40 Inscritta sul verso: Roma Fran [..]6 8[..]X bre (in antico) Dossi Provenienza: Italia, collezione privata Riferito al ferrarese Dosso Dossi nella collezione di appartenenza, la tavola presenta chiare affinità con le opere di Giovanni Agostino da Lodi (Lodi, 1470 circa e attivo tra il 1490 e il 1515), artista altresì noto con l'appellativo di Pseudo Boccaccino assegnatogli da Wilhelm Bode (Cfr. W. von Bode, Un maestro anonimo dell'antica scuola lombarda (il Pseudo Boccaccino), in Archivio Storico dell'Arte, 1890, pp. 193-195). Si deve infatti allo studioso tedesco la distinzione tra le opere di Giovanni Agostino da quelle di Boccaccio Boccaccino (Ferrara, prima del 1466 ; Cremona, 1525), ma si dovrà attendere l'intervento di Malaguzzi Valeri del 1912 per conoscere la reale personalità del maestro, grazie al ritrovamento nella collezione Bazzero a Milano (poi nella Pinacoteca di Brera) di un dipinto firmato 'Johes Augusti / nus Laudesis P.' (Cfr. F. Malaguzzi Valeri, Chi è lo 'Pseudo Boccaccino', in Rassegna d'Arte, 1912, 6, pp. 99-100), 'che si dimostra del tutto simile ai quadri raggruppati sotto lo pseudonimo boccacciniano' (F. Moro, Giovanni Agostino da Lodi, ovvero l'Agostino di Bramantino: appunti per un unico percorso, in Paragone, XL, 1989, 473, pp. 23-61). In questa sede non è possibile elencare e commentare gli sviluppi critici avvenuti nel corso del '900, ma si possono evidenziare gli aspetti salienti che caratterizzano l'artista, la cui formazione milanese dettata dagli esempi di Donato Bramante, del Bramantino, di Leonardo, Giovanni Antonio Boltraffio, si coniuga alla cultura veneta di Alvise Vivarini, Antonello da Messina e Giovanni Bellini. Bene si avverte questa commistione osservando la sua prima opera pubblica nota: la Madonna col Bambino in trono fra i Santi Giovanni Battista, Ambrogio, Agostino e Giorgio oggi conservata nella chiesa di San Giacomo a Gerenzano, che comprova una conoscenza da parte dell'autore della pittura veneziana e quindi una sua precoce presenza nella città lagunare, altresì attestata dalla Lavanda dei piedi datata 1500 della Galleria dell'Accademia. Di conseguenza, si deve riconoscere all'artista lodigiano il merito di aver diffuso la cultura leonardesca in Veneto e, come indicato da Franco Moro, plausibile la sua prima presenza a Venezia durante l'ultimo decennio del '400, cronologia che trova altresì conferma dalla commissione del 1492 della Pala dei Barcaioli del traghetto di Murano (ora in San Pietro martire a Murano), acclarandosi quale sua più antica opera in terra veneta e di certo esempio per il giovane Giorgione (L. Simonetto, in Arte lombarda, 84-85, 1988, pp. 73-84; Moro 1989). Tornando al dipinto qui presentato, si percepisce la preponderanza del fondale paesistico i cui caratteri trovano diversi spunti di confronto. Possiamo citare quello presente nella Madonna, il Bambino e due devoti di Capodimonte, con le medesime rocce taglienti e caratterizzate da fessurazioni geologiche (F. Moro, in Pittura tra Adda e Serio. Lodi, Treviglio, Caravaggio e Crema, Milano 1987, p. 103, tav. 28), così, anche la tipologia degli alberi che riscontriamo nelle poco più tarde tavole della collezione Thyssen (Cfr. J. M. Pita Andrade e M. del Mar Borobia Guerrero, Old Masters Thyssen-Bornemisza Museum, Barcellona 1992, p. 184). Passando ai brani di figura, il volto della Vergine lo ritroviamo nella Madonna con il Bambino e San Sebastiano della Galleria Estense di Modena e ancora più nell'Adorazione dei pastori del Museo di Allentown, in cui si può cogliere la similitudine del vecchio San Giuseppe con il re Mago dell'Adorazione di Brera, realizzata con Marco d'Oggiono a cui spettano le figure della Vergine de Bimbo (Cfr. F. Moro, in Pinacoteca di Brera. Scuole lombarda e piemontese 1300-1535, Milano 1988, pp. 337-340, n. 150).

Stima 5 000 - 8 000 EUR

mar 18 giu

ABRAHAM BRUEGHEL - (Anversa, 1631 - Napoli, 1697) Natura morta con fiori, frutta, figura femminile e paesaggio sullo sfondo Firmato A. Bruegel F. Romae in basso al centro Olio su tela, cm 114X157 Il dipinto è stato dichiarato di straordinario interesse storico artistico e sottoposto a regime di notifica. Provenienza: Roma, collezione Ghiron (1956) Roma, collezione Gina Lollobrigida Bibliografia: Archivio Federico Zeri, n. 85551 L. Trezzani, La natura morta romana nelle foto di Federico Zeri, in La natura morta di Federico Zeri, Bologna 2015, pp. 185-192, nota 9 A. Cottino, Abraham Brueghel 1631-1697. Un Maestro della natura morta fra Anversa, Roma e Napoli, Foligno 2023, p. 93, n. 38 Il dipinto è una fondamentale testimonianza dell'attività romana di Abraham Brueghel, in cui l'autore esibisce tutta la sua esuberanza barocca e il talento nordico per la puntuale descrizione dei frutti e dei fiori, contrassegnando l'evoluzione della natura morta capitolina del secondo Seicento. Non si deve altresì dimenticare l'eccezionale tradizione pittorica della dinastia familiare dei Brueghel, che il nostro esprime con assoluta padronanza e modernità, in modo particolare per l'innovativa concezione scenica e luministica, che delinea con lucentezza le forme e impreziosisce le tonalità. Giunto nella Città Eterna nel 1659, il pittore raggiunse velocemente un grande successo e venne accolto a pieno titolo nel difficile mondo artistico romano, intrecciando una lunga corrispondenza con il celebre amatore d'arte Antonio Ruffo e con il mercante fiammingo Gaspar Roomer, finché la sua fama si diffondesse tra i prestigiosi collezionisti dell'epoca, che 'menavano vanto di possedere gli esiti del suo pennello', così troviamo la citazione dei suoi dipinti negli inventari Chigi, Pamphilj, Colonna, Orsini e Borghese. Non da meno fu il successo che riscosse a Napoli (1676), ben documentato dal giudizio espresso dal De Dominici che lo giudicò il migliore a dipingere fiori e frutti, in virtù della mimesi e dell'amplificazione scenica delle sue rappresentazioni, ben distanti da quelle arcaiche e silenziose concepite da Giovan Battista Ruoppolo e Giuseppe Recco. Tornando alla nostra opera, molteplici sono gli spunti di confronto, si veda ad esempio la simile composizione pubblicata da Cottino (Cfr. Cottino 2023, p. 92, n. 37), coadiuvata per il brano di figura da Guglielmo Cortese, secondo una formula illustrativa concepita da Michelangelo da Campidoglio. La collaborazione di pittori di figura con il celebre naturamortista è infatti cosa ben nota, lo testimonia altresì una lettera del 1666 a don Antonio Ruffo, in cui egli scrive di aver realizzato nature morte con figure dipinte da Giacinto Brandi, Baciccio, Maratti e Guglielmo Cortese (Cfr. V. Ruffo, La Galleria Ruffo a Messina nel secolo XVII, Roma 1917, pp. 172 e ss., cap. IX, pp. 21-64, 95-128, 237-250). Tuttavia, secondo Ludovica Trezzani e le annotazioni critiche della notifica, in questo caso l'opera è da assegnare in toto alla mano del maestro. L'idea di raffigurare 'Belle che raccolgono frutti' riscosse evidentemente un notevole apprezzamento e fu Stefano Bottari nel 1960 il primo a pubblicarne i dipinti, partendo da una versione conservata alla Gemäldegalerie di Dresda (olio su tela, cm 133X98) e successivamente l'argomento fu ripreso da Dieter Graf ed Eric Schleier (Cfr. D. Graf; E. Schleier, Guglielmo Cortese e Abraham Brueghel, in Pantheon XXXI, 1973, pp. 46-57). Bibliografia di riferimento: L. Salerno, La natura morta italiana: 1560 ; 1805, Roma 1984, ad vocem L. Salerno, Nuovi studi sulla natura morta italiana, Roma 1989, ad vocem La natura morta in Italia, a cura di F. Porzio e F. Zeri, Milano 1989, II p. 788 L. Trezzani, in Pittori di natura morta a Roma. Artisti stranieri 1630-1750, a cura di G. Bocchi e U. Bocchi, Viadana 2004, pp. 117-147 A. Cottino, C. Sisi, Orti del paradiso, catalogo della mostra, Caraglio 2015, p. 148

Stima 24 000 - 32 000 EUR

mar 18 giu

GAETANO CHIERICI - Reggio Emilia, 1838 - 1920 L'elemosina Firmato Chierici fec. e datato 1869? in basso a destra Olio su tela, cm 47X58,5 Provenienza: Roma, Christie's, 30 maggio 1995, lotto 284 Brescia, Galleria d'Arte Santa Giulia Italia, collezione privata Bibliografia: L'opera è archiviata presso l'Archivio Baboni per la Pittura Italiana del XIX secolo e sarà inserita nel catalogo ragionato aggiornato. Noto soprattutto come pittore di genere per la realistica rappresentazione di scene di vita domestica, Chierici affronta con eccellenti risultati anche tematiche storiche e religiose, mantenendo fede alla solida tradizione accademica e purista, nel solco della pittura fiamminga e olandese del Seicento. A Firenze, nel 1858, presso la Scuola di Pittura dell'Accademia delle Belle Arti, entra in contatto con i macchiaioli. Il tema dei frati più volte affrontato dal Chierici negli anni '60 e '70, e soggetto dei nostri dipinti qui illustrati, risente, infatti, dell'influenza e della vicinanza ai pittori Borrani e Abbati, che più volte si erano cimentati nel realizzare questi stessi soggetti. Il suo percorso figurativo si orienta ad affrontare soggetti come architetture di chiostri o paesaggi animati da figure di religiosi, dove il senso del vero si articola tra luci e ombre, privilegiando l'immediatezza della stesura pittorica. Negli anni Sessanta, la sua arte si esprime anche attraverso eleganti ritratti intensi ed espressivi, per poi passare, dalla fine degli anni '70, alle scene di genere, narrate con intenso realismo e una tecnica altamente descrittiva, sempre con una vena arguta e personale. Già nel 1866, Chierici si ritira nella sua città natia, dove produrrà molte opere inviandole alle esposizioni di Vienna e Monaco di Baviera; espone poi a Londra dal 1877 al 1881, a Boston e a Milano, nonché alle principali esposizioni internazionali del momento. Sempre in questo periodo verrà nominato direttore della Scuola di Belle Arti di Reggio Emilia. Bibliografia di riferimento: Gaetano Chierici pittore (1838; 1920) catalogo della mostra a cura di E. Somaré, Milano 1938, ad vocem G. Morselli, La pittura di Gaetano Chierici (1838-1920), Reggio Emilia 1964, ad vocem

Stima 18 000 - 24 000 EUR

mar 18 giu

ADEODATO ZUCCATI - (attivo a Bologna alla fine del XVII secolo) Coppia di nature morte con conca di fiori su un tappeto Olio su tela, cm 96,5X143 (2) Provenienza: Forlì, collezione privata Italia, collezione privata Ricordato dal Masini 'esperto nel dipingere al naturale' (Cfr. Masini 1666 ; 1690), per Marcello Oretti, Zuccati fu allievo di Pier Francesco Cittadini, ammettendo però di non conoscerne le opere (Ms B 128, sec. XVIII, c. 45). Tuttavia, sappiamo che la collezione del conte Annibale Ranuzzi, il cui inventario ci è noto grazie a Giuseppe Campori, contava nel 1697 diverse opere dell'artista. Mentre due 'paesi con frutti e prospettive' si trovavano in casa Sedazzi nel 1700 (Cfr. Morselli, 1998, p. 412, n. 51). Come possiamo notare le notizie biografiche sono alquanto scarne e in antico, oltre alla memoria fornitaci da Pietro Zani, si deve attendere l'intervento di Luigi Salerno che nel 1984, su segnalazione di Adriano Cera, pubblicò una tela simile a queste in esame recante sul verso la scritta 'Del Zuccati Pittor celebre di Bologna'. Grazie a questa scoperta è stato possibile delineare un catalogo del pittore e permettere di riconoscere la coppia di nature morte già di Paolo Brisigotti (Cfr. Sambo 2000 e Mazza 1994) e la Natura morta con conca di fiori su un tappeto custodita all'Opera Pia Prati di Forlì, che per costruzione scenica e dimensioni è perfettamente conforme alla tela qui presentata (Fig. 1, cfr. Colombo Ferretti 1989). L'analisi di queste opere manifesta un'aria di famiglia con le composizioni del Cittadini ma ancor più con le creazioni di Antonio Gianlisi, conferendo all'autore un ruolo di 'Mediatore tra la cultura emiliana e lombarda' (Cfr. Sambo 2000). Si ringrazia Gianluca Bocchi per l'attribuzione. Bibliografia di riferimento: A. P. Masini, Aggiunta alla Tavola e al catalogo dei pittori e scultori moderni della Scuola di Bologna, 1666 ; 1690, c. 67 P. Zani, Enciclopedia metodica critico-ragionata delle Belle arti, Parma 1817-1824, I/19, p. 450 G. Campori, raccolta di cataloghi ed inventari inediti di quadri, statue, disegni dal secolo XV al secolo XIX, Modena 1871-1872, ad indicem L. Salerno, La natura morta in Italia, Milano 1984, p. 423 A. Colombo Ferretti, in La natura morta in Italia, a cura di F. Porzio, F. Zeri, Milano 1989, v. I p. 488 R. Morselli, in Collezioni e quadrerie nella Bologna del Seicento: inventari: 1640-1707, a cura di A. Cera Sones, Los Angeles 1998, pp. 409-412, n. 51 E. Sambo, in La natura morta in Emilia e in Romagna. Pittori, centri di produzione e collezionismo fra XVII e XVIII secolo, Milano 2000, pp. 101-102

Stima 4 000 - 7 000 EUR